Spesso si arriva in analisi con la voglia di “raccogliere le idee, essere logico e riportare il mondo in una prospettiva razionale” ma poi ci si rende conto che in quella stanza tutto si fa tranne che essere razionali! Mi è capitato spesso di uscire dallo studio del mio analista e di domandarmi: cosa è successo oggi? Magari ero andato lì con un problema che mi arrovellava il cervello da giorni e poi…boh! Parlavo di tutt’altro, cose che apparentemente (o no) non avevano nulla a che fare con ciò che mi affliggeva e andavo via con pensieri nuovi che non sostituivano affatto quelli vecchi ma che, anzi, si aggiungevano ad essi…e stavo bene!!
Facendo un giro di opinioni tra i miei amici, compagni e alcuni colleghi di lavoro, ho notato che l’opinione comune vede l’analista come qualcuno che deve fare qualcosa di concreto in merito a ciò che affligge il paziente. Ci si aspetta da lui che interpreti le produzioni del paziente e che dia delle dritte su come modificare al meglio i modi di pensare e di agire che in quel momento sembrano essere di ostacolo perché disfunzionali. Tuttavia, quello che viene fuori dalla mia personale esperienza (come paziente e come psicologo) è che il campo analitico – con il suo setting e il suo essere specifico per ogni paziente – è già di per sé un fattore terapeutico: il fatto stesso che il paziente abbia a disposizione un luogo fisso e costate nel tempo in cui “stare” con sé stesso è, a conti fatti, un fattore che può ridurre lo stato di malessere. In aggiunta a questo, però, c’è anche il fatto che in loco “vive” un altro soggetto, l’analista, il quale non solo ascolta le storie che il paziente porta nella stanza di analisi, ma che gioca con lui contribuendo alla creazione di “storie” sempre nuove che riescono a stimolare il suo mettersi in discussione. Loriedo, in un suo testo, riporta il pensiero di Bateson secondo cui la mente (ciascuna mente) pensa in termini di storie.
“[…] il paziente arriva dal terapeuta con delle storie da raccontargli, strutture e sequenze delle esperienze vissute, che però sono anche la materia con cui ha costruito la propria identità. Queste storie, come strutture nel tempo, costituiscono il contesto in cui inseriamo anche i nuovi eventi, in quanto “ciò che è accaduto ieri (…) rimane e informa di sé il nostro rapporto di oggi” […]. È noto che fin dall’infanzia l’essere umano si nutre di storie narrate dagli adulti ed esprime in forma di storia il proprio mondo attraverso il gioco. Attraverso la narrazione le persone comprendono e organizzano la realtà, in quanto il rapporto che si instaura tra soggetto e oggetto non si limita alla mera registrazione, ma dà invece origine a rappresentazioni continue dall’osservatore attraverso la sua soggettività, rappresentazioni o tasselli di storie che interagiscono e si combinano come in una danza”. (Loriedo C., Acri F.)
Il terapeuta, quindi, con la sua partecipazione attiva alle storie del paziente apre alla possibilità di costruirne di nuove grazie al fatto che lo spazio analitico può essere percepito come un luogo sicuro, un campo fisico e psichico nel quale il paziente può sentirsi libero di dar voce a tutte le sue angosce e le sue fantasie, trovando risvolti sempre nuovi rispetto al suo modus operandi. Questo processo è diverso dall’interpretazione e sembra avere a che fare con quell’“elaborazione immaginativa” di cui parla Bonaminio in un suo scritto e che descrive così:
“[…] l’elaborazione immaginativa è quella attività psichica che aggiunge senso ma non da senso, perché un senso c’è già per quanto inespresso, all’incontro tra analista e paziente. È una attività molto più artigianale e molto più umile di quanto non si voglia far credere per nobilitare il lavoro dell’analista. È un po’ come il lavoro del falegname che deve fare di raspa e di pialla una voluta ad un cassetto e sfrutta, per farlo, le venature del legno, l’incurvatura naturale che esso ha, aggiunge qualcosa ad un preesistente, ma non nel legno, bensì al suo incontro col legno, lo scruta, lo guarda, lo tocca con le mani ruvide, ne capisce le asperità o le parti di consistenza liscia. Su quelle si basa per incominciare ad immaginare come può venire quella voluta, poi forse dovrà cambiare forma in corso d’opera. Sarà soddisfatto se la voluta che lui ha immaginato, a partire da come è il legno, sarà sufficientemente corrispondente a quello che lui aveva intravisto, aveva “indovinato” in quella curvatura.” (Bonaminio V.)
Più che all’opera di un falegname, però, personalmente preferisco pensare al campo analitico come alla “stanza del regista”, un luogo in cui prende vita una storia: il paziente butta giù la trama del film prendendo spunto dai suoi vissuti e l’analista contribuisce alla stesura attraverso immagini visive o rappresentazioni acustiche (o di altri registri sensoriali) più o meno organizzate e derivanti da quello che Ferro individua come “lo stato di rêverie dell’analista” (Ferro A.), ovvero dalla sua capacità di entrare in contatto con il non pensato del paziente e di formularlo mediante rappresentazioni elementari.
Come ogni buon film, la storia scritta in analisi sarà fatta di immagini, di metafore, di elementi proposti e rivisitati continuamente che coinvolgono direttamente il paziente dentro e fuori dalla seduta. Egli, infatti, si porterà a casa i contenuti del film proprio come fa lo spettatore alla fine di una proiezione, e si prenderà del tempo per metabolizzarli e/o per condividerli con altre persone che ritiene in grado di apportare dei contributi al suo film per poi magari riportarli in seduta la volta successiva. La differenza sostanziale tra il film dell’analisi e quello del cinema, però, sta nel fatto che:
“[…] nella sala cinematografica il film è uno solo, mentre nella stanza di analisi i film proposti sono infiniti poiché continuamente l’analista propone il proprio punto di vista al paziente. E mentre nella stanza di analisi il paziente a quel punto modificherà la trama della propria storia e riproporrà all’analista sempre un nuovo film, nella sala cinematografica lo spettatore, accogliendo dal proprio vertice il suggerimento del regista, non potrà modificare con i propri suggerimenti la trama proposta dal regista.” (Boccara P., Riefolo G.)
Il film, quindi, nella sala cinematografica viene visto e poi elaborato mentre nella stanza di analisi viene co-creato, riscritto continuamente. In questo lavoro di co-creazione l’interpretazione svolge un ruolo secondario in quanto il focus non è quello di dare un senso, bensì di stimolare l’elaborazione immaginativa del paziente che, una volta sistematizzata, renderà possibile anche l’interpretazione.
BIBLIOGRAFIA:
- Boccara P., Riefolo G., Al cinema dallo psicoanalista – Se il cinema è utile alla psicoanalisi, Borla, Roma, 2015
- Bonaminio V., Elaborazione Immaginativa, Rich&Pig 2012;20(1):26-43
- Ferro A., Tormenti di anime, Cortina, Milano, 2010
- Loriedo C., Acri F., “Il setting in psicoterapia – Lo scenario dell’incontro terapeutico nei differenti modelli clinici di intervento”, Franco Angeli, Milano, 2009