pensieri, Recensione film

Father and son – Uno sguardo sulla famiglia

Father and Son è un film di Hirokazu Kore-Eda, regista giapponese, uscito in Italia nel 2014. Sono incappato in questa pellicola grazie a un esame previsto nel piano di studi della mia Scuola di Specializzazione e quello che segue è il frutto di alcune riflessioni fatte rispetto al tema centrale del film: la paternità è qualcosa di biologico o di relazionale-affettivo?

Ryota Nonomiya è un professionista di successo, un uomo che lavora sodo ed è abituato a vincere. Un giorno, lui e la moglie Midori ricevono una chiamata dall’ospedale di provincia dove sei anni prima è nato loro figlio, Keita, e vengono a sapere che sono stati vittima di uno scambio di neonati. Il piccolo Keita è in realtà il figlio biologico di un’altra coppia, che sta crescendo il loro vero figlio, insieme a due fratellini, in condizioni sociali più disagiate e con uno stile di vita molto differente. Ryota si trova di fronte alla necessità di una decisione terribile: scegliere il figlio naturale o il bambino che ha cresciuto e amato per sei anni [1]

Il film mostra l’evoluzione di Ryota rispetto al suo essere padre ma anche l’influenza che gli stereotipi culturali possono rivestire – a volte in maniera brutale e limitante – nel sentimento di identità dell’individuo. Tale influsso si palesa nel dilemma che fa da fil rouge a tutto il film: la paternità deriva dal legame sanguigno o da un riconoscimento affettivo?

Il regista adotta uno strumento emblematico per rispondere a questa domanda, la macchina fotografica in cui Ryota trova delle foto che gli ha scattato di nascosto Keita. Attraverso quelle foto egli impara che non sono l’esercizio di volontà o il legame sanguigno a fare di lui un padre, bensì lo sguardo e l’amore che il figlio prova per lui.

Il tema della paternità che superficialmente viene fuori dal contesto generale del film mi ha portato ad approfondire due temi che credo siano la radice dell’angoscia relativa alla scelta dello scambio dei bambini che Ryota si porta dietro per tutto il film: il concetto famiglia come gruppo sociale e quello di proprietà privata.

Negli ultimi anni il tema della genitorialità si è fatto sempre più importante e credo che andando ad indagare l’origine del sistema famiglia – e quindi contestualizzando nell’accezione più sociale il ruolo familiare – si  possano anche affrontare meglio le nuove frontiere della genitorialità. Ma andiamo per gradi: che cosa si intende con l’espressione: “famiglia come gruppo sociale”?

Seguendo la classificazione dei sociologi R. Hill e D. A. Hansen, si possono distinguere cinque principali quadri di riferimento per descrivere la famiglia come gruppo sociale:

  • Il quadro interazionale: la famiglia viene considerata come un’unità di persone che interagiscono e l’inter-azione dei membri (vale a dire l’azione esercitata reciprocamente da ognuno di essi) è in funzione del ruolo che essi svolgono all’interno di questa unità;
  • Il quadro struttural-funzionalista: la famiglia è un sottosistema specializzato e differenziato del più generale sistema societario per cui è intesa come l’espressione specifica di bisogni e di valori che vengono soddisfatti attraverso rapporti di scambio – cioè di negoziazione e dunque di reciprocità;
  • Il quadro situazionale: è la prospettiva secondo cui è il contesto esterno alla famiglia a forgiarne e a definirne l’esistenza;
  • L’approccio istituzionale: la famiglia è un’istituzione che è venuta via via definendosi attraverso un complesso sviluppo storico. L’istituzione familiare, secondo questo approccio, si struttura in base ai bisogni fondamentali che storicamente emergono in seno alla famiglia manifestando i valori culturali specifici di ogni società;
  • L’approccio dello sviluppo: in estrema sintesi questo approccio pone un particolare accento sull’insieme dei ruoli e dei compiti che si sviluppano nel corso dell’esperienza familiare e che ne delineano l’essenza.

Tutti questi approcci ci mostrano come la famiglia non sia affatto un gruppo statico, bensì è un sistema sempre in evoluzione per quanto riguarda i bisogni che esprime e i ruoli che si sviluppano al suo interno. Si deve prendere consapevolezza, infatti, che il gruppo famiglia non è soltanto il luogo degli affetti, delle emozioni private o dei sentimenti ma un vero e proprio soggetto a se stante in grado di trasferire a livello sociale un modello emotivo, sentimentale ed emozionale. Questo è particolarmente vero per la società Giapponese la cui cultura si basa proprio sul tramandare le regole del buon comportamento stando sempre sotto il severo giudizio degli avi che guardano e giudicano dall’aldilà. La famiglia, quindi, diventa un crocevia simbolico capace di trasferire significati espressivi, valori, emozioni che contribuiscono a formare l’identità personale dell’individuo, il senso di appartenenza e non di meno la conservazione di un’eredità e di una memoria. In aggiunta a tutto ciò, la famiglia è anche – e soprattutto – il luogo in cui si impara a relazionarsi con gli altri: il bambino, infatti, fin dalla nascita è immerso in un contesto relazionale nel quale può costruire la sua identità.

Dalla suddetta descrizione viene fuori la visione della famiglia come un vero e proprio gruppo e, a mio avviso, il film si fa portavoce di questa prospettiva mostrando tutti i meccanismi di funzionamento di questa entità a se stante. Se, infatti, dovessimo provare a dare un’interpretazione a ciò che è avvenuto al gruppo famiglia di Ryota potremmo dire – Bionianamente parlando – che di fronte al mutamento catastrofico della scoperta dello scambio dei bambini, la famiglia Nonomiya ha subito un drastico mutamento della cultura del gruppo: una profonda negazione sfocia nell’adozione dell’assunto di base di attacco-fuga vedendo nell’ospedale e nella figura dell’infermiera responsabile dello scambio l’oggetto cattivo esterno dal quale difendersi e da distruggere. La soluzione di questa posizione viene poi gradualmente ridimensionata dalle relazioni dei membri del gruppo – Ryota e sua moglie – con i soggetti esterni ad esso – uno su tutti il biologo che incontra Ryota – i quali permettono di ristabilire la plasticità del campo gruppale fino a crearne un accorpamento con il gruppo famiglia dei veri genitori di Keita. Si forma così un nuovo gruppo allargato con nuovi protagonisti e nuovi ruoli.

A questa descrizione del sistema familiare, però, va aggiunto a mio avviso un tassello importante che permette di spiegare la travagliata scelta di Ryota nel decidere se scambiare i figli o meno. Questo tassello riguarda il concetto di proprietà privata dal quale, secondo il mio punto di vista, nasce la stessa idea di gruppo familiare.

Partendo da una prospettiva storico-antropologica, infatti, il concetto di proprietà privata è assente nella preistoria in quanto incompatibile con la pratica del nomadismo. Secondo Marx, tale concetto si afferma solo dopo la diffusione della pratica dell’agricoltura ma, almeno inizialmente, si tratta di un diritto dell’intera comunità tribale che, però, occupa quel tanto di terra che è in grado di lavorare e che basta a consentire la conservazione e la riproduzione dei propri membri. Di norma nei villaggi neolitici – eccezion fatta per abbigliamento, utensili e armi di uso personale – qualsiasi tipo di bene  apparteneva al dio tutelare ed era amministrato dal sacerdote o dal re. Essendo di proprietà di un dio, quindi, la terra non apparteneva a nessun individuo particolare ma all’intera comunità che vi risiede, anche se amministrata da un rappresentante umano del dio stesso. Insomma, la terra era di tutti ma di fatto apparteneva a chi la lavorava a patto che questi fosse anche in grado di difenderla da eventuali malintenzionati (interni o esterni alla comunità) che avrebbero tentato di appropriarsene. La situazione cominciò a cambiare nel corso del neolitico quando, a causa dell’incremento demografico legato alla diffusione dell’agricoltura, gli spazi vuoti si fecero sempre più rari e il rischio di scontri armati fra tribù diventò molto frequente. La situazione che i viene così a delineare fa si che chi non è forte abbastanza sa che presto o tardi verrà espropriato della sua terra e dei suoi beni. Da questo momento la proprietà privata viene a dipendere dai rapporti di forza: la proprietà si conquista con la forza e si difende con la forza! Queste condizioni di cronica insicurezza spinsero i singoli clan e le singole tribù a organizzare una qualche forma di difesa permanente al fine della loro stessa sopravvivenza. Nacquero così i villaggi fortificati in cui si fece largo una figura prima sconosciuta: il capo. Trovarsi uniti sotto il comando di un capo non offriva ai clan solo la garanzia di una più efficace azione di difesa collettiva, ma anche la forza necessaria per compiere azioni offensive a danno delle comunità vicine. L’entità famiglia, a mio avviso, si inserisce proprio in questo contesto venendosi a delineare come un costrutto sociale che sì crea legami e favorisce la difesa da pericoli esterni, ma che in sostanza altro non è che un meccanismo di difesa messo in atto dagli individui per evitare che la tradizione familiare – sublimazione della proprietà privata – si disperda venendo inglobata da altri. Tale prospettiva può trovare il suo emblema nel periodo Medioevale in cui i concetti di Casata e di Rango vincolavano i rapporti tra gli stessi individui: i nobili dovevano sposarsi tra loro in quanto non si poteva correre il rischio di disperdere il sangue della dinastia o sporcare il Nome della Casata con qualcuno che non ne fosse degno.

Quanto di tutto questo ci sia nella scelta travagliata di Ryota è presto detto: il fatto di accettare un figlio non di sangue è motivo di disonore in quanto fomenta l’angoscia per la perdita della continuazione della dinastia e quindi della proprietà privata. Nel modo di educare suo figlio, il protagonista mostra come spesso i bambini siano ostentati dai genitori come oggetti da mostrare al pubblico sociale, dei sé in miniatura che servono per ricevere lodi nell’essere un ottimo genitore a vanto della propria tradizione familiare. Il bambino, quindi, diventa l’emblema di questa tradizione familiare, ne diventa portatore sano e da qui la crisi di Ryota che non si capacita di come un bambino non geneticamente suo possa aver appreso la cultura familiare della sua “casata”. Tale crisi viene poi accentuata dal confronto con Ryusei, il figlio biologico di Ryota, il quale con i suoi continui “perché” in risposta all’imposizione delle rigide regole che vigono nella nuova casa, instilla a suo padre il dubbio riguardo l’impostazione tradizionale dell’educazione prima e del sistema familiare poi. Il protagonista inizia così un percorso che sfocerà nel riconoscere la funzione paterna in quanto genitore rispecchiante e non solo consanguineo.  Il padre, dunque, è quello che ti mette al mondo o quello che ti fa crescere? Il film pone lo spettatore in maniera curda proprio davanti a questo interrogativo facendo emergere l’ambivalenza del concetto di padre.

Partendo dal film e dall’esperienza dei Nonomiya, credo che oggi come oggi la famiglia palesi più che mai la sua funzione di meccanismo difensivo contro l’ansia depressiva derivante dalla frammentazione e dal decentramento etico tipici della società capitalistica e consumistica. Essa si costituisce come unico contenitore in cui suoi protagonisti possono riversare le frustrazioni che l’essere uno “status symbol” – unica forma di identità – comporta nella società attuale. L’uomo e la donna – e di conseguenza la famiglia – vivono, infatti, due passaggi molto importanti: il primo è quello della riscoperta della libertà, l’altro riguarda la scoperta che questa libertà è solo apparente in quanto dal tessuto sociale provengono delle domande con un peso spesso superiore alle possibilità personali di risposta. Da un lato, quindi, non ci sono più quelle piccole comunità (famiglia estesa, villaggio) che forniscono una sicurezza di appartenenza all’individuo ma che allo stesso tempo sono vissute come un’autentica camicia di forza per via delle pressioni psicologiche che esercitano le norme morali rigidamente prefissate e socialmente vincolanti che ne sono l’essenza costitutiva; dall’altro, però, dai nuovi “campi di appartenenza” (lavoro, scuola, tempo libero, ecc.), ovvero quei settori in cui l’individuo forgia la sua personalità con un vissuto di piena libertà personale, giungono pressanti richieste di impegno che portano con sé carichi di angoscia sempre crescente per la necessità di salvaguardare l’identità di status symbol. Il padre e la madre oltre ad accompagnare i figli a nuoto, a scherma, a pallavolo, a inglese o a danza, devono anche fare i conti con i weekend sempre più faticosi, le relazioni di amicizia sempre più coinvolgenti, la necessità di studi sempre più lunghi, approfonditi e costosi, con la necessità di appartenere ad un sindacato, ad un partito politico, ad un gruppo ecclesiale, ad un’organizzazione culturale, a un club sportivo, a un comitato di quartiere o di genitori…

Ernest Henau, sociologo olandese, a questo proposito presenta i suddetti campi di appartenenza come delle “sirene sociali” che con il loro canto coinvolgente fanno sì che l’uomo e la donna si ritirino nel privato cercando delle zone di rifugio. La famiglia – o anche certe relazioni amicali – possono rappresentare queste zone rifugio ma in questo modo la famiglia cade nell’individualismo e spesso si creano tensioni, malesseri e forte disagio. Potrebbe essere questo concetto la fonte di ispirazione per spiegare la voglia di Ryota di avere un figlio vincente e preparato in tutto: Keita, infatti, diventa lo specchio dello status symbol genitoriale, il trofeo che Ryota può sfoggiare perché tutti vedano quanto bravo sia come educatore di valori. Ad un’attenta analisi, quindi, Keita altro non è che il contenitore delle ansie e delle angosce di suo padre e infatti i due si toccano e si incontrano davvero solo nella scena finale, ovvero quando Ryota restituisce al figlio la macchina fotografica accettando così l’identità di padre agli occhi di suo figlio e non agli occhi della comunità.

Credo, quindi, che il punto su cui il film vuole porre l’accento sia quello di valorizzare la funzione paterna e non tanto il ruolo del padre. Per questo credo di poter affermare, pur tenendo in considerazione la complessità della faccenda, che quello che fa di un padre e di una madre due ottimi genitori non è il loro sesso o il fatto di condividere con il bambino il patrimonio genetico, quanto più l’essere in grado di assolvere ai ruoli che il paterno e il materno costituiscono: castrazione e contenimento.

[1] Fonte: http://www.mymovies.it

 

BIBLIOGRAFIA

  • Grinberg L., Sor D., Tabak de Bianchedi (1993), Introduzione al pensiero di Bion. Milano, Raffaello Cortina;
  • Hansen D.A., Hill R. (1964). Families under stress. Handbook of marriage and the family. Num.46, pag.923-926
  • Henau E. (1986), Popular Religiosity and Christian Faith. In: Concilium, 186;
  • Marx K.(1970), Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica. Firenze, La Nuova Italia;
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