“Non mi conoscevo affatto, non avevo per me alcuna realtà mia propria, ero in uno stato come di illusione continua, quasi fluido, malleabile; mi conoscevano gli altri, ciascuno a suo modo, secondo la realtà che m’avevano data; cioè vedevano in me ciascuno un Moscarda che non ero io non essendo io propriamente nessuno per me: tanti Moscarda quanti essi erano.“
L. Pirandello, Uno, nessuno e centomila
Luigi Pirandello ha studiato e masticato per anni il concetto di identità riuscendo a rappresentarne egregiamente le varie sfaccettature grazie ai personaggi dei suoi racconti.
Basta leggere “Uno, nessuno e centomila” o “La patente” per accorgersi di come per lo scrittore siciliano l’identità altro non è che una maschera, un ruolo che più o meno consapevolmente ciascun individuo sceglie di impersonare mediando tra i suoi bisogni e quelli degli altri.
Capita spesso, però, che gli “altri” abbiano un’immagine distorta di noi, un’immagine che cancella ciò che siamo e che tiene conto solo di ciò che vorrebbero noi fossimo o facessimo.
A questo punto il bivio: essere chi vogliamo correndo il rischio di deludere – e in casi estremi perdere – chi ci vuole in un altro modo, o fingere cercando di trarre beneficio dalla maschera che ci forgiano addosso?