
Giovedì 16 Luglio ho partecipato come contributor al tavolo Salute Consapevole per l’iniziativa Re/Future/It, un think tank nato per stimolare il dibattito pubblico e la nascita di nuove azioni intorno a tematiche strategiche per l’Italia di domani.
L’iniziativa prevedeva dieci tavoli di lavoro all’interno dei quali sono state affrontate dieci tematiche (l’industria che verrà, il neo-lavoro, re-community, sostenibilità urbana, didattica dinamica, digital bridging, euritalia, motore cultura, ecologia dell’informazione e salute consapevole) e gettate le basi per nuove idee che poggiano su competenze e fatti dimostrabili.
Al tavolo a cui ho partecipato c’erano anche Francesca Fedeli e Angelo Stera in qualità di curatori, Cristina Gabetti in veste di moderatrice, Salvatore Iaconesi, Guendalina Graffigna, Caterina Rizzo, Fabiana Zollo, Franco Fabbro in qualità di esperti ed io, Tina Bruzzese, Marco Dotto, Tiziana Manni e Marco Ferrari come contributors.
La base dalla quale è partita la discussione riguardava il come educare i cittadini del futuro affinché possano giungere ad un adeguato livello di health literacy che permetta loro di comprendere rischi e vantaggi delle scelte sulla salute. Dai contributi degli esperti sono venute fuori delle riflessioni molto interessanti rispetto a cosa si intenda per salute consapevole e a quali siano gli interventi necessari affinché quest’ultima possa diventare un obiettivo auspicabilmente raggiungibile entro il 2030.
A questo proposito, tre concetti hanno attirato particolarmente la mia attenzione ed hanno dato il là al mio intervento all’interno della discussione: quello di identità, di tempo e di incertezza.
L’identità è a mio avviso uno dei primi elementi da analizzare quando si parla di salute, in quanto ritengo che se non si ha ben chiaro chi si è e chi si ha davanti – e questo vale sia per il medico che per il paziente – il processo di cura rischia di finire ancora prima di iniziare. In questo senso, vedo l’identità come il presupposto che permette alla persona di indagare se stesso e l’altro al fine di instaurare con quest’ultimo un rapporto di fiducia utile a gettare le basi per la creazione di un percorso curativo. La fiducia, quindi, viene a delinearsi come un derivato identitario essenziale per il processo di cura e capace di differenziare quest’ultima dalla mera terapia. Se è vero, infatti, che la terapia è spesso “standardizzata” per il paziente e accettata in maniera acritica da quest’ultimo (pensiamo all’uso automatico di un antinfiammatorio generico per il mal di testa), la cura è un processo che si sviluppa col tempo e che richiede la conoscenza di chi ci sta di fronte. Nella mia professione questo fenomeno si riscontra in maniera marcata in quanto è difficile che un paziente resti in analisi se non instaura un buon rapporto con l’analista: ho bisogno di sapere che l’altro mi vede, che guarda a me come ad un individuo unico e non come un elemento da incasellare in un cluster!
Da qui muovo al secondo elemento, quello del tempo: per vedere davvero chi mi sta davanti ho bisogno di tempo. Non posso pretendere di conoscere una persona basandomi solo su ciò che vedo o che mi sembra di aver intuito in un paio di colloqui. Per svilupparsi, la relazione con il paziente (e con il medico, se per un attimo ci si scambiano gli abiti!) ha bisogno di tempo, ha bisogno di domande sincere e risposte comprensibili. Ad oggi, quanto tempo hanno i professionisti della salute per conoscere davvero i loro pazienti, o i pazienti per fermarsi a capire davvero ciò che il medico gli sta dicendo? Per una nuova politica della salute c’è bisogno di andare verso un attento processo clinico basato sulla cura dell’individuo e non solo del sintomo e, affinché questo possa avvenire, occorre il tempo necessario utile a favore lo sviluppo di un reale interesse nel comprendere non solo chi abbiamo davanti, ma anche come stiamo noi all’interno della relazione.
Ecco quindi che arriviamo al concetto di incertezza. Pensiamo al periodo che stiamo attraversando: il virus ci ha messo di fronte ai nostri limiti, alla nostra impotenza di fronte a determinate circostanze; ci ha fatto sperimentare un forte senso di incertezza rispetto all’imminente futuro e questo ci ha portato a fare un vero e proprio “check identitario”: chi sono? dove sono? cosa sta succedendo? come posso organizzarmi? che devo fare? In situazioni come queste emerge la necessità – e qui chiudo il cerchio tornando al primo concetto evidenziato – di resistere allo stress identitario a cui veniamo sottoposti e di ammettere a noi stessi che siamo esseri limitati. Sempre più spesso, infatti, i ritmi frenetici, le numerose attività che svolgiamo e gli stimoli sempre più numerosi a cui siamo sottoposti ci fanno perdere di vista la nostra “umanità” e finiscono col farci aderire ad un’idea di noi stessi intesi come macchine che devono poter funzionare sempre e comunque al meglio. Così, il medico finisce con l’avere il mero compito di aggiustare la macchina mentre il farmaco è l’attrezzo che permette di farla tornare su pista. Si può intuire facilmente, quindi, come in questo panorama l’incertezza finisca per essere un vero e proprio shock per la persona; avere tempo per fermarsi, per riflettere su cosa accade, per guardarsi e riconoscersi, per darsi la possibilità di galleggiare all’interno di quel mare di incertezza che ci circonda, può fornire invece uno spunto per ritrovarsi e per sviluppare poi delle nuove strategie. Questa possibilità deve senz’altro essere offerta al paziente, ma deve potersi estendere anche al professionista della salute: egli dovrà essere inteso come un compagno di viaggio nel processo di cura che ha il compito di guidare, tranquillizzare e stimolare chi gli sta davanti. Insomma, terapeuta e paziente devono poter sentire che sono in due a navigare in quel mare di incertezza che lo stato di disagio o la malattia portano con sé, e ciò sarà possibile solo se ognuno dei due protagonisti in gioco riuscirà a vedersi riconosciuto dall’altro.
Da queste riflessioni, quindi, si evidenzia come ci sia una forte inter-relazione tra professionista della salute e paziente, e come il processo di cura venga necessariamente influenzato dall’influsso che l’uno ha sull’altro.
In definitiva credo che per intervenire in maniera efficace nel processo di cura e di alfabetizzazione sanitaria occorra ripensare al rapporto tra medico e paziente incentrando l’intervento su una sorta di analisi reciproca di Ferencziana memoria: i protagonisti della relazione clinica devono potersi scambiare i ruoli, devono poter comprendere come l’uno può essere utile all’altro e riuscire a porsi quel quesito che Salvatore Iaconesi ha posto a noi durante il confronto al tavolo: alla fine, chi cura chi?